Pe(n)sa Differente - Il Blog - Pensieri che prendono corpo
29
nov
Essere persone di talento... Intervista a Mary Garret Essere persone di talento... Intervista a Mary Garret

“Essere persone di talento può voler dire anche semplicemente avere il coraggio di scegliere e vivere la propria vita”
Mary Garret



È ormai passato qualche mese dell’evento ‘Pe(n)sa differente – 2012’, Manifestazione nazionale di sensibilizzazione, informazione e formazione su anoressia, bulimia e obesità. In quell’ambito ha partecipato, in qualità di testimonial, Maria Francesca Garritano, in arte Mary Garret. Conosciuta da molti come l’ex-ballerina della Scala di Milano, licenziata dopo alcune dichiarazioni in merito alla diffusione di anoressia e bulimia nel mondo della danza, Mary Garret è soprattutto un’artista estremamente attiva nella lotta contro i Disturbi del Comportamento Alimentare e anche autrice di un libro. Quella che segue è l’intervista che ho avuto il piacere di farle proprio sul suo “La verità vi prego sulla danza!” Un libro che considererei come un gioco di palpebre, il cui messaggio è un invito a guardare la realtà, a farlo con i propri occhi e poi chiuderli, per concederci un momento di riflessione che ci permetta di smascherare il reale, di ascoltare il nostro autentico sentire. Alla fine, come nel caso di Mary Garret, gli occhi vanno riaperti per individuare le falle del sistema, quello che non va, ciò a cui bisogna dire basta… in modo da scegliere di impegnarsi per cambiarlo.


Il libro che hai scritto è diventato il simbolo della denuncia contro i Disturbi del Comportamento Alimentare nel mondo della danza e non solo. Io credo tuttavia che il libro sia molto di più di questo, in esso infatti, attraverso riflessioni che partono dalla tua esperienza personale, tratteggi una sorta di ritratto dell’essere artista, dove l’essere persona di talento fa tutt’uno con l’accettazione della propria umanità. Si tratta di una piena adesione della persona intera a quello che fa e che, come descrivi nel libro, comporta una profonda analisi della propria intimità. In che modo sei arrivata a questa presa di consapevolezza? E fino a che punto oggi nel mondo dell’arte pensi sia possibile lasciare spazio a una simile ricerca?


Il libro è nato perché a un certo punto ho deciso di mettere su carta quelli che erano i miei pensieri. Pensieri scaturiti da una frase che mi disse il mio maestro una volta: a un certo punto la danza ti lascia e ti resta la vita. Questa frase mi ha posto di fronte all’interrogativo sul senso di ciò che stavo facendo e sul suo valore per la vita. Non è stata un’esperienza negativa, ma mi sono fermata a riflettere sul fatto che forse, pensando alla danza in un certo modo, come volevano gli altri, stavo passando accanto a me stessa, perdendomi la vita. Questo non è assolutamente quello che fa un artista. Un artista quando va in scena, qualunque cosa debba fare, porta tutto se stesso e la sua vita, per quello che è. In questo libro raccolgo i miei pensieri, le mie riflessioni sul mondo della danza. Quando da piccoli ci si affaccia a questo mondo, si ha in testa un progetto ben definito da realizzare e si tenta di fare di tutto pur di realizzarlo. Personalmente, per realizzare il mio sogno di ballerina ho impiegato tutta una vita, sin da quando ero piccola. A un certo punto ho avuto bisogno di rivedere tutto ciò che era stato, proprio perché quella frase mi aveva scatenato un moto di ricerca interiore. E ho scoperto che la riflessione sull’essere artista, sul come esprimere la propria umanità nell’arte, è una cosa che in questo ambiente viene a volte dimenticata. Perché ci si affanna a corrispondere a schemi imposti dall’esterno, senza chiedersi il perché. E si pensa di più a fare l’artista che non ad esserlo, quando nel momento in cui lo sei non dovresti neanche pensarci. Forse si dovrebbe imparare a saper dialogare con la propria umanità e impegnarsi a ricercare la propria arte del vivere.


Forse è in questo senso che il libro può essere letto in termini di denuncia, anche per ciò che riguarda i Disturbi del Comportamento Alimentare. Denuncia nei confronti di un mondo, che non è solo quello della danza, dove troppo spesso sfugge il valore di unicità peculiare di ogni persona e dove non vengono presi in considerazione quegli aspetti di fragilità, di frattura, di mancanza in cui spesso ci si imbatte nella ricerca della propria soggettività...


In effetti, scrivendo questo libro ho raccolto tutta una serie di riflessioni in cui ho anche analizzato l’aspetto che poi ha suscitato il grande scandalo e il mio licenziamento della Scala a distanza di un anno e mezzo. Si tratta dell’ossessione del danzatore nei confronti del suo corpo, di questa percezione spesso sbagliata della propria immagine e che può condurre alla trappola dei Disturbi del Comportamento Alimentare, in cui io stessa sono caduta. Mi spiace soltanto che questo libro venga definito come il libro che denuncia questi disturbi nel mondo della danza, quando in realtà parla di tante altre cose. Tu hai colto nel segno quando hai detto che fa capire che dietro ai DCA, in questo caso dei danzatori, c’è veramente molto altro. Quindi mi fa piacere che questo messaggio sia arrivato e se questo è stato o potrà essere di aiuto a qualcuno, allora ben venga il licenziamento.


Nel libro descrivi come a volte, a causa delle pressioni e delle aspettative altrui, la fiamma interiore, la passione per l’arte possa spegnarsi. C’è stato un momento in cui la tua fiamma interiore ha rischiato di spegnarsi? E se sì, come sei riuscita a farla riardere?


Mi è capitato che la fiamma interiore si spegnesse perché sono subentrati dei fattori di forte frustrazione, dovuti al fatto che non riuscivo ad esprimermi per come io sentivo, ma vedevo che intorno a me c’era un voler farmi esprimere per come gli altri percepivano me, la danza e il messaggio che attraverso essa dovevo mandare. E questo ha generato in me un grande disagio, perché mi rendevo conto ogni giorno sempre più prepotentemente che ciò che contava era solo dover esibire la danza e non esprimerla essendo semplicemente me stessa. A un certo punto ho iniziato a sentire che dovevo dire basta a tutto questo e rientrare di nuovo in contatto con me stessa, con la mia intimità. La necessità di questo contatto era qualcosa di presente che non mi ha mai del tutto abbandonata. Forse per questo sono riuscita a recuperarlo e in questo processo il libro è stato il punto di svolta per ritornare alle origini.


A proposito di origini, nel libro ricordi uno dei momenti in cui hai colto la differenza che c’è tra un’educazione sterile, che non trasmette nulla ma mira solo a rispondere a criteri di efficienza imposti, e un’educazione che alimenta la passione, cioè il coraggio di seguire il proprio slancio interiore, rendendolo vera cultura “Mica possiamo essere tutti medici e avvocati”, con questa frase, la tua professoressa di greco ti ha improvvisamente fatto cogliere questa differenza. Che tipo di riflessione ti ha fatto scaturire questa presa di coscienza?


A me aveva toccato tanto quello che la professoressa di greco mi disse. Lei era una molto fissata con il rigore. Io la percepivo come una di quelle persone che seguono solo degli schemi, dei criteri fissi, una sorta di routine. In realtà, quella sua rigidità era l’emblema della sua passione. Lei dava così tanta importanza all’insegnamento per far sì che noi ci appassionassimo altrettanto, ma non necessariamente alla sua materia, ma a ciò che avremmo potuto scoprire essere importante per noi. A volte mi terrorizzava perché volevo cercare di fare tutto bene per compiacerla, per farle capire che quella sua passione era arrivata, che sapevo perfettamente il greco. Invece poi, nella totale naturalezza, lei mi disse che dovevo seguire la mia passione, quando comunicai che ero stata presa alla Scala e quindi dovevo lasciare la scuola. E mi disse che non dobbiamo essere tutti per forza medici avvocati professori ecc. Ognuno deve poter vivere della propria passione, alimentare la propria fiamma. Lì ho capito l’importanza che lei dava alla sua passione, all’insegnamento. L’educazione dovrebbe aiutare a capire ciò che vogliamo fare per essere autenticamente noi stessi, per esprimerci in quello che stiamo facendo, nel senso e nel valore che gli diamo alle cose e alla nostra vita.


Sin da piccola avevi scoperto la tua passione: la danza. Sicuramente la danza ha anche molto di tecnico, i ballerini sono chiamati ad esercitare un profondo controllo sul proprio corpo e sulle sue modalità d’espressione. Cosa hai imparato tu dal tuo corpo? Cosa ti insegna ogni giorno l’esperienza che fai di esso?


Ho imparato che devo assolutamente fidarmi del mio istinto. Molti dicono che la danza, soprattutto la danza classica, è contro natura. In effetti, si fanno dei movimenti che in realtà non sono proprio consoni alla struttura fisica dell’uomo. Io però ho capito che per fare bene danza devi affidarti al corpo, al suo istinto e seguire la sua naturalità. Questo è ciò che ti permette di danzare bene anche tecnicamente. Ho imparato che è importante e fondamentale ascoltare questo istinto. Non fare forzature, non percepire la danza classica come qualcosa di rigido, di strettamente relazionato al rigore. Non è assolutamente così. La danza classica si evolve grazie a un equilibrio che si sposta in continuazione, alla dinamica al ritmo. È qualcosa cha va di pari passo con la natura, del resto la prima cosa che dà il ritmo è il battito cardiaco. La naturalità del respiro, del movimento, della gestualità è qualcosa che impari dal tuo corpo, quando sei in armonia con quello che senti. Paradossalmente tutto ciò si disimpara. È qualcosa che si ha sin da piccoli e che poi si perde perché vengono inculcate delle regole, della rigidità che vanno contro la naturalità della danza. Per recuperare questa naturalità occorre fare il processo inverso, anche qui, tornare alle origini.


C’è un passaggio molto bello del libro in cui affermi che l’arte come la sofferenza fa da amplificatore a ciò che ognuno è realmente. La tua esperienza con la danza è anche un’esperienza di rinunce, ferite, delusioni e lacerazioni. Come hai restituito a quelle ferite una loro dimensione, scegliendo, come affermi alla fine del libro, di continuare a lottare?


Proprio con il libro. Perché come dicevo prima il libro è stato un punto di svolta. Ho sentito la necessità di scrivere, di mettere su carta ciò che non riuscivo a spiegare attraverso la danza, attraverso un altro tipo di espressione. Ed è stato catartico, perché scrivere ti permette di fare un’analisi di te stesso, di quello che è stato il tuo percorso. E il libro mi ha aperto anche a tante esperienze di condivisione con la gente, persone che non necessariamente avevano a che vedere con il mondo della danza. Mi sono resa conto di quanto fossi immersa in quel mio mondo, come chiusa in uno schema di pensiero ovattato. Avevo perso il contatto con la dimensione autentica, personale del vivere nel mondo. Attraverso le riflessioni del libro mi sono riappropriata di quelle che erano le cose essenziali e, facendo questo, sono riuscita a rivedere quelle sofferenze, quelle frustrazioni, quei momenti di lacerazione come li hai chiamati tu, in termini positivi. Cioè come tutte cose che hanno fatto parte del mio passato e che non andavano rinnegate ma accolte. In questo modo ho tratto da esse lo slancio versa una nuova evoluzione. E sento che sarà sempre un crescendo.

Andrea Sagni



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