Ah! quei corpi...
"Io" dici e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa più grande - cui non vuoi credere - è il tuo corpo e la sua grande ragione; questa non dice io, ma fa da io.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Dillo come ti pare, le parole diventano approssimazioni che spiegano ben poco quando ti accorgi di un rapporto che sfugge persino dalla fitta trama deterministica della legge di causalità: il corpo è volontà di vivere. E che questa volontà fosse per Schopenhauer forza cieca ed irrazionale qui non importa starlo a sottolineare. Importante è che tra il mondo come rappresentazione, regolato meccanicisticamente dal rapporto causa-effetto da cui alcun divenire è sottratto, e quello come volontà, cioè cosa in sé, c'è un corpo, il tuo, il mio, che sta, gettato nel mondo, ad urlare la verità filosofica κατ ἑξοχήν, per eccellenza: il corpo è volontà di vivere, oppure, il corpo è "oggettità" della volontà di vivere. Esso, cioè, è la sola via d'accesso al nocciolo metafisico del mondo e sta con quel nocciolo in un rapporto d'identità che è conosciuto immediatamente, ma non può essere dimostrato. Praticamente un miracolo. Nell'ultima imponente cattedrale del sapere che la filosofia ottocentesca abbia innalzato, il sistema filosofico di Schopenhauer, il corpo è un miracolo.
E agli spregiatori del corpo ha parlato lo Zarathustra di Nietzsche. Più e meglio di lui proprio non posso dire: "Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un potere sovrano, un saggio sconosciuto - si chiama Se stesso. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. C'è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chissà mai perché il tuo corpo ha bisogno proprio della tua migliore saggezza?".
Sono passati almeno due secoli dacché la filosofia occidentale ha preso orgogliosamente congedo dalla concezione orfico-pitagorica del corpo come tomba dell'anima. Ed il modo di vivere filosoficamente questo congedo non sta in passerella, ma nel significato conferito da Vattimo al termine thlipsis: il tormento della molteplicità. Più che un sapere, un sentire. Più che un sentire, un sentirsi. Non eterni, non infallibili, non perfetti. Queste categorie del pensiero lasciale all'ontologia tradizionale. Pensare in questi termini l'essere, ed il corpo insieme ad esso, vuol dire rimanere indietro di duecento anni. Avere fede nel tormento della molteplicità significa invece anteporre all'essere il divenire, ovvero anteporre al modello assolutizzante dell'ontologia tradizionale di derivazione metafisica, che oggi sopravvive subdolamente con il nome di Mercato, la porosità del Se stesso, che è sempre in tensione verso quell'auto-accrescimento che è consapevolezza, dunque in perenne trasformazione. Vivere senza nevrosi la necessità della trasformazione. Questa è la sfida. E lasciare che a viverla sia il corpo.
L'aveva capito bene Pier Paolo Pasolini. Tutti quei corpi nudi sulla scena, a rappresentare il Se stesso che permane, anzi resiste. Tutti quegli sguardi, tutta quella purezza, quell'innocenza non condannabile, la sola cosa che conosci da sempre. Il sentire immediato. La comunicazione immediata. Il miracolo κατ ἑξοχήν.
Erika Sorrenti
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