«Io sono me stesso e la mia circostanza. Ma la vita è qualcosa che non è li così, semplicemente, come una cosa, ma è sempre qualcosa che bisogna fare… essere persona è un processo senza fine»
J. Ortega y Gasset
Ogni persona ha il diritto e il dovere di stare bene con se stessa! Questo imperativo è ormai diventato dominante in ogni angolo della nostra società. Dai media alle istituzioni, l’invito contemporaneo è quello a realizzarsi come persone e a piacersi nel proprio corpo. Senza interrogarci sui perché o sui come, abbiamo la tendenza a seguire tale invito, tanto più che sembrerebbe condivisibile. Ma cosa vuol dire esattamente? E come mai questa affannosa ricerca dello “stare bene”, va di pari passo con un crescente disagio? Se ci guardiamo intorno vediamo come la tendenza sia quella a cristallizzarci nei nostri corpi, nel senso di dover apparire sempre giovani, belli e impeccabili, come una fotografia che si ripropone sempre uguale nel tempo, dove tutto è automaticamente corretto e ogni aspetto sgradevole viene filtrato via: quello che si dice “persone di successo”. Una crescente confusione tra reale e immaginario che ha dell’inquietante.
Ma cosa vuol dire realizzarsi come persona? E che ruolo ha il nostro corpo in questo?
È vero, la nostra esistenza è quella di esseri incarnati. Viviamo nel mondo attraverso il corpo e questo fatto, apparentemente banale, ci pone in una condizione assai particolare. Rispetto al nostro corpo infatti è impossibile dire se “lo siamo” o se piuttosto “lo abbiamo”.
Mentre infatti si potrebbe dire che gli animali sono tutt’uno con il loro corpo e in base ad esso vivono e reagiscono agli stimoli esterni, l’uomo non si identifica completamente con il proprio corpo. Se è vero che siamo nel mondo e ci rapportiamo ad esso per mezzo dei nostri corpi, che ci permettono anche di distinguerci dagli altri e dalle altre cose intorno a noi, è anche vero che c’è una dimensione di interiorità che non si può ridurre tutta al corpo e che ce lo fa percepire come esterno a noi, come cosa tra le cose. Per questo viviamo in una zona di frontiera tra l’essere un corpo e l’avere un corpo. Che cosa vuol dire? Equivale a dire che per le nostra condizione di esseri umani, vivere e sopravvivere non sono la stessa cosa.
Il fatto di non poterci identificare completamente con il nostro corpo, di non essere dati e definiti interamente dalla nostra corporeità, ci rende indeterminati, cioè non definibili una volta per tutte. Non ci basta rispondere solamente ai nostri istinti e bisogni materiali per stare bene. Per vivere dobbiamo imprimere alla nostra vita una forma. Vuol dire che siamo chiamati a costruire la nostra personalità a partire da una soggettività che nasce, si struttura e dipende dai valori che assumiamo, dalle scelte che facciamo, dalle relazioni che intratteniamo con gli altri e con noi stessi e dal modo in cui ci rapportiamo agli eventi della vita, anche a quelli che non dipendono direttamente da noi.
Il nostro corpo è la condizione che ci rende possibile fare esperienze nel mondo e non solo, ma anche di essere l’oggetto di esperienza degli altri, cioè di venire in rapporto con gli altri. E questo rapporto è fondamentale poiché è nell’incontro e nel confronto con l’altro che abbiamo la possibilità di arricchire parti di noi e di dare autenticità al nostro percorso che è sempre in divenire. E perché è sempre in divenire? Perché l’uomo, che non può identificarsi totalmente con il corpo, ma è chiamato a dare un forma, un registro di senso alla propria esistenza, vive in una condizione di mancanza e di precarietà che derivano dalla sua incompletezza.
C’è sempre qualcosa che ci manca, c’è sempre qualcosa che vorremmo avere e che non riusciamo a raggiungere, ma che stimola in noi il desiderio di cercare il nostro completamento. Desiderio che tuttavia è impossibile da realizzare, perché dietro di esso si nasconde la volontà di essere tutto, di essere infinito, di essere necessario. Ma è proprio però in virtù di questa impossibilità che continuiamo a riprogettarci, che continuiamo a cercare l’incontro l’altro, come esseri sempre in divenire, unici e irripetibili. E questo percorso parte da una condizione di precarietà ineliminabile. Non decidiamo noi le condizioni su cui l’esistenza è data: nessuno di noi ha scelto dove nascere, in quale famiglia, luogo o epoca storica. Né possiamo mai avere la certezza di ciò che il futuro ci riserverà. Ciò significa che nessuno di noi è immune dal dolore, dal fallimento, dalle avversità della vita, ma che nonostante questo è possibile progettarsi e riprogettarsi, restando aperti all’imprevisto e al rischio, accogliendo i propri limiti.
Consapevoli di questo, possiamo renderci conto di come questa mancanza unita alla precarietà del vivere, in quanto caratteristiche fondamentali del nostro essere umani, quali essere corporei e finiti, non vanno viste come ostacoli, ma come possibilità tutte nostre che cooperano alla nostra realizzazione di persone. Realizzazione in cui ciascuno di noi ha il compito di assumersi la responsabilità di coltivare quel rapporto con se stesso e con gli altri che lo fa essere ciò che è, e che non possiamo delegare a nessun altro, se non a prezzo della nostra libertà. Una persona è tale, non in quanto resta identica a sé stessa, ma in quanto si rinnova costantemente, proprio in virtù della sua incompletezza e della sua precarietà. Essa è ciò che fa delle circostanze in cui si trova ad essere. Ogni persona è allora per definizione unica. E questa unicità è il risultato sempre nuovo, visibile e invisibile, del suo assumersi la responsabilità di ciò che diviene, nei suoi atti di libertà.
Tuttavia, la questione che si pone, riguarda le modalità con cui oggi possiamo esprimere questa libertà e questa responsabilità nel nostro essere persone.
Nella società di oggi siamo tenuti a contemplare la nostra vita come un unico grande insieme di scelte e di decisioni. Dalle questioni più importanti a quelle più banali siamo chiamati a fare una scelta che ci definirà, che darà una definizione di noi stessi agli altri. Ma fino a che punto queste scelte sono realmente libere e responsabili? Ci troviamo a vivere in una società che ci impone giorno dopo giorno aspettative sempre nuove a cui dovremmo conformaci, in cui dobbiamo continuamente dimostrare agli altri di essere belli, di essere efficaci, di essere felici, sapendo tenere sotto controllo ogni aspetto della nostra vita in modo che risulti perfetta e completa. E nel momento in cui si esige da noi la perfezione, ogni scelta diventa sempre più difficile da compiere in quanto si lega al timore del fallimento e al senso di colpa che ci assalirà se avremo fatto la scelta sbagliata. E in risposta a questo, la società ci fornisce tutta una serie di modelli preconfezionati, di stili di vita da seguire, di ricette per essere felici che ci danno sicurezza perché ci tolgono quella responsabilità, che in un mondo così carico di aspettative ci fa paura.
Ma venendo a mancare le componenti di libertà e di responsabilità, quello che definisce, che esalta il concetto di persona non sta più nella sua unicità, ma nella sua capacità di conformarsi alle esattamente aspettative altrui e quindi di apparire perfetta, esteticamente e dal punto di vista performativo. Ecco che da persone ci si trasforma in personaggi.
Il personaggio è colui che risponde al ruolo che gli è attribuito, non ha nulla di spontaneo, ma riproduce i canoni imposti dalla società, rincorrendo gli standard di perfezione proposti dai media. Al tempo stesso, questo tendere verso la perfezione omologante produce un sentimento di insoddisfazione continua. Perché? Perché non prende in considerazione quelle parti di noi stessi che ci caratterizzano tutti e cioè quella mancanza che ci fa essere sempre incompleti e quella precarietà che ci fa essere fragili. Invece di prenderci cura di questi aspetti di noi, che non sono ostacoli ma possibilità di arricchimento, tendiamo a soffocarle e a reprimerle per assomigliare a modelli impossibili da raggiungere. Così facendo, perdiamo di vista quel rapporto dialettico con il nostro corpo, per cui siamo e al tempo stesso abbiamo un corpo, ma ci identifichiamo solo con la sua apparenza esteriore. Il che vuol dire che non abitiamo più il corpo, ma semplicemente lo esponiamo. Ecco allora che ci si ritrova a vivere in un mondo dove devi essere un uomo “che non deve chiedere mai” o una donna che può dire “io valgo” solo usando certi prodotti; in cui l’universo ruota “tutto intorno a te” e bisogna imparare ad essere “giovani fin da giovani”. Un mondo dove in realtà si genera solo frustrazione per il fatto che si vorrebbe sempre assomigliare ad altro da sé ed essere diversi da come si è, fino a diventare, alla fine, uguali a tutti gli altri. Un mondo dove si deve assolutamente essere “come qualcuno” o “più di qualcuno”, fino a perdere l’amore di sé e la possibilità realizzarsi nella propria essenza, per quello che autenticamente siamo. Laddove vivere autenticamente significa smettere di modellare la nostra vita sulla base delle presunte aspettative degli altri o in conformità a modelli imposti dall’esterno, per essere liberi di assumerci la responsabilità di coltivarci a partire dalle nostre possibilità d’essere, dai nostri desideri, dalle nostre fragilità e da ciò che più ci caratterizza, in un processo sempre in divenire. In questo processo, l’incontro con l’altro si caratterizza, non come sottomissione (io mi conformo a te) né come sopraffazione (io devo dimostrare di essere superiore schiacciandoti), ma come rapporto di coesistenza e comprensione delle peculiarità, delle differenze e della fragilità altrui. Come rapporto di dialogo e di scambio, in un atteggiamento di umiltà, nel senso etimologico del termine, che deriva da ‘humus’, cioè terreno fertile, che rende possibile la crescita. Ed è unicamente nello scambio e nella valorizzazione della differenza, che è possibile produrre qualcosa di nuovo e costruttivo, mentre nell’omologazione e nel desiderio mimetico può trovarsi solo appiattimento.
In questo senso dovremmo guardarci da tutti quegli imperativi imposti che ci rendono schiavi di canoni estetici e di efficienza omologanti e che pretendono di venderci al supermercato la ricetta per essere felici. Liberandoci da queste imposizioni e dai falsi miti, potremmo allora realmente riappropriarci della nostra libertà di realizzarci per le persone che essenzialmente siamo, uniche e irripetibili.