«Vivere la vita come un’iniziazione. Ma a che cosa? Non a una dottrina, ma alla vita stessa» Giorgio Agamben
Manca poco alla sesta edizione di ‘Pe(n)sa differente. Festeggia il tuo peso naturale!’, la manifestazione nazionale di sensibilizzazione, informazione e formazione su anoressia, bulimia e obesità che si terrà il 13, 14 e 15 giugno a Lecce.
Come tutti gli anni, non mancheranno eventi artistici volti a celebrare le potenzialità espressive e creative della corporeità di ognuno. In quest’ambito, si inserisce lo spettacolo di danza intitolato “La ragazza indicibile”, che sarà messo in scena al Teatro Romano la sera del 14 giugno dalle compagnie di danza Atto e Elektra, quale seconda parte di una trilogia inaugurata l’anno scorso con “Olga la Bambola” e dedicata alla figura femminile.
Qual è il lavoro che precede e imprime la sua forma a ciò che si presenterà agli occhi degli spettatori? Da che tipo di ricerca prende le mosse?
Quella che segue è una breve intervista ad Annamaria De Filippi, coreografa dello spettacolo, insegnante di danza e direttrice di alcuni laboratori espressivi del Centro per la Cura e la Ricerca sui DCA di Lecce. Annamaria ci racconta qui il suo modo di intendere la danza e il percorso di costruzione dello spettacolo, dove il corpo danzante abbandona il mondo superficiale della parola parlata, strumentalizzata, autoreferenziale per diventare corpo parlante ed accedere a quella dimensione intima a profonda che non ha necessariamente bisogno di parole per raccontarsi.
Perché si danza?
Credo che la danza sia una dimensione antica che ognuno di noi porta dentro di sé, sebbene con sfumature diverse. In quanto esseri dotati di un corpo che si muove nello spazio, siamo tutti a nostro modo intrisi di danza e quella di esprimersi attraverso il corpo, in assenza di parola, è un’esigenza primaria dell’uomo. L’arte deve saper dar voce alle nostre necessità profonde. Ecco perché si danza… danzare fa bene, ci migliora.
In che cosa individui la potenzialità di questo portare a un miglioramento?
Chiaramente la danza, come disciplina artistica e sociale, ha assunto molteplici declinazioni nel corso degli anni. In particolare, l’aspetto “terapeutico” della danza è, almeno per me, tra i più importanti. Quando dico terapeutico, non lo intendo in senso medico o psicologico, ma mi riferisco al percorso che il lavoro artistico può avviare verso una conoscenza di sé. In questo senso la danza diventa un momento di ricerca profonda, una dimensione di confronto e di accettazione di sé, di lavoro sui propri non detti interiori, laddove spesso mancano le parole per raccontarsi a se stessi e agli altri. In effetti , la danza non può essere solamente insegnata come tecnica e unicamente espressa come pura forma. Tecnica e forma sono essenziali, ma non esauriscono il discorso artistico. L’arte deve saper restituire a chi la pratica e a chi la contempla una nuova forma di conoscenza su di sé, sul mondo. Deve saper annunciare l’umano, anche laddove si tratta di rappresentazione scenica.
Quella che oggi si direbbe una sfida non troppo scontata. In che misura l’arte conserva ancora questa dimensione?
Purtroppo, molto spesso la dimensione artistica viene spesso sganciata da quella che dovrebbe preparare alla consapevolezza di sé. Per cui si può essere un danzatore tecnicamente perfetto, senza aver mai fatto un percorso intimo e profondo di coscienza. Qui tuttavia diventa difficile riuscire ad esprimere autenticamente se stessi. Occorre riscoprire la danza come strumento di racconto, di rappresentazione del proprio essere. Tramite la danza, così concepita, si ha la possibilità di accedere al quel mondo intimo, spesso in ombra, di cui non si può sempre parlare, ma che ha la capacità di narrarsi da sé, se gliene diamo la possibilità.
Potremmo dire che la parola viene lasciata al corpo come parte integrante della persona e della sua irriducibile unicità?
Esattamente. Il problema di oggi è che non si ha più la capacità di raccontarsi veramente, anche nell’arte. E anche laddove ci si racconta viene tutto ridotto ad un’esposizione autoreferenziale, a un atto performativo. Una ricerca di perfezione ed esposizione che nulla hanno a che fare con la verità, per così dire, della persona. Quando invece raccontarsi autenticamente implica in primo luogo un attento ascolto di se stessi e degli altri. Nel raccontarti devi farti continuamente delle domande. Devi saper dire che cosa provi, qual è l’emozione che ti sta investendo. Oggi c’è una grande incapacità di dire quello che si prova e un’inquietante sordità nei confronti del proprio corpo. Prima di raccontare occorre fermarsi su se stessi, aprendosi all’introspezione, individuando ciò che ci caratterizza o ci suggestiona. In questo senso il mio lavoro di educazione è propriamente un condurre fuori dai miei allievi ciò che spesso non ha avuto la possibilità di essere espresso a parole. Questo non significa che si danza come se si parlasse, si tratta di una forma di espressione altra che ha un valore differente e ulteriore. Il lavoro sul movimento, sull’espressività corporea, permette di infrangere alcune barriere della comunicazione che, solo attraverso la parola, sono spesso insuperabili. Il mistero di ciò che non può essere detto a parole, viene qui espresso dal corpo.
Una modalità di esprimere e prendere in considerazione l’indicibile, senza pretendere di esaurirlo in una definizione che sia una volta per tutte esaustiva. Mi sembra sia una delle suggestioni evocate dal titolo dello spettacolo…
Lo spettacolo di quest’anno, che fa parte di una trilogia che ha al centro la femminilità, è ispirato al mito di Persefone-Kore. La storia è quella di una fanciulla, non più bambina ma non ancora donna, che non ha la possibilità di prendere coscienza di sé e di individuare quali siano le proprie virtù e il proprio potenziale. Solo ascoltandosi e raccontandosi uscirà dal mondo infero dell’ignoranza di se stessa, conquistando un nuovo rapporto col mondo e la riscoperta della propria femminilità. Lo spettacolo cerca appunto di dare dignità a un femminile negato.
Con le danzatrici abbiamo tracciato dei segni precisi sulle loro ossessioni, abbiamo lavorato su materiale vero. Non c’è niente di estetico fine a se stesso in quello che facciamo e se c’è è il risultato di un lavoro emozionale, di un percorso di ricerca interiore e spesso faticoso. Ogni ragazza si è messa in discussione e ha lavorato su delle paure proprie, da qui nasce lo spettacolo. È un manifesto che guarda alla necessità di saper riconoscere e accogliere quelle zone d’ombra che fanno parte di noi, per poi riscoprire la potenzialità della propria luce.