«Come si fa a smettere di rincorrere qualcosa che tanto poi non si ottiene mai? Come si fa ad accettare veramente l’idea che il senso della propria vita è già lì, semplicemente perché si vive, e che non c’è bisogno di lottare ogni giorno per avere il diritto di esistere?»
Michela Marzano
Quella che segue è l’intervista a Michela Marzano, che quest’anno è stata testimonial della manifestazione “Pe(n)sa differente – 2013”. L’invito è quello di prendere alla lettera l’espressione “Pe(n)sa differente”. Invito che pone di fronte a una sfida difficile, perché siamo in una società dove la tendenza è quella all’uniformità e quindi al rifiuto della differenza. Ma è solo quando si accolgono le proprie differenze e la differenze altrui, che si riconoscono poi i limiti e le potenzialità della condizione umana.
I disagi che molte persone vivono a causa dei messaggi veicolati dalla nostra società, dall’imposizione di modelli di perfezione e standard di efficienza sempre più elevati, stanno diventano sempre più di frequente oggetto di riflessione. Tuttavia pare che molto spesso ci si limiti ad assumere tutto ciò come un dato di fatto. Quasi ci si ripetesse semplicemente che sarebbe bello se le cose fossero diverse, ma che purtroppo questa è la realtà e non può cambiare, con la conseguente tendenza ad alzare le spalle e a mantenere lo status quo. È possibile invece cominciare a pensare un reale cambiamento secondo te? E se sì, da quali basi dovrebbe partire?
Uno dei problemi di fronte a cui ci troviamo oggi è che anche se si è consapevoli dei limiti del clima culturale all’interno del quale viviamo, è poi però molto difficile cercare di uscire dalla semplice denuncia per posizionarsi in maniera diversa. Io penso che il messaggio che dovrebbe essere trasmesso fin da quando si è piccoli, da parte dei genitori e degli educatori, è quello dell’accettazione. Il nocciolo che è alla base di tanti problemi, compresi i sintomi dei Disturbi del Comportamento Alimentare, è proprio quello dell’assenza dell’accettazione di sé per quello che si è. Abbiamo un problema di riconoscimento. Siamo in una società che chiede sempre più di cercare di essere all’altezza delle aspettative altrui. Ma il problema di ognuno, quando si viene al mondo, è esattamente il contrario. Nel momento in cui si nasce non si tratta di adeguarsi alle aspettative altrui, ma si tratta in primo luogo di essere riconosciuti per quello che si è, con aspetti positivi e negativi. Non si tratta di conformarsi a un modello o di raggiungere determinati obiettivi. Si tratta di avere una serie di strumenti che ci permettano di essere quello che siamo, essendo stati riconosciuti prima di tutto dai nostri genitori. È un problema al tempo stesso ideologico, filosofico e patologico. Come dice uno dei miei filosofi preferiti, Axel Honneth, il riconoscimento è proprio ciò che ci permette di vivere. Per poter vivere senza ammalarsi, ognuno di noi ha bisogno di essere riconosciuto e il riconoscimento passa in primo luogo attraverso l’amore. Essere amati per quello che si è e non tanto per quello che si fa. Essere amati anche quando si è diversi rispetto alle aspettative e non per la capacità che si ha di conformarsi alle aspettative. Perché cercare e fare di tutto per essere esattamente come gli altri vorrebbero che non fossimo è proprio il problema da cui poi scaturiscono tutta una serie di disagi, tra cui anche anoressia e bulimia.
Da questo punto di vista, qual è il ruolo della filosofia? Ha un suo posto nella prevenzione dei disagi che affliggono la nostra società?
Il ruolo della filosofia per poterci aiutare a vivere è complicato e al tempo stesso molto importante. Per me all’inizio la filosofia era un modo per mettere in ordine il mondo. La filosofia contava nella misura in cui mi dava degli strumenti capaci di controllare il reale. In questo senso, da parte mia, c’era una distorsione della filosofia. È stato solo col passare del tempo che mi sono resa progressivamente conto della necessità della filosofia, ma di una filosofia diversa. La filosofia è diventata per me un pensiero incarnato. Da questo punto di vista, una filosofa chiave nella mia storia è Hannah Arendt. Lei ha sempre rifiutato l’etichetta di filosofa, proprio perché per Hannah Arendt la filosofia non può essere un pensiero sterile. Essa è importante nel momento in cui ci dà strumenti per pensare la nostra condizione. E per pensare la nostra condizione umana, la filosofia deve poter partire da quello che Hannah Arendt chiama l’evento. Che cos’è l’evento? L’evento è tutto ciò che ci sconvolge, tutto ciò che ci attraversa, che ci rimette in discussione e ci obbliga a ripensare noi stessi, il mondo e il nostro rapporto con gli altri. Nel caso di Hannah Arendt, l’evento è quello della Shoah. Lei disse di non poter più pensare se non a partire da quella catastrofe. Nel mio caso, la mia catastrofe personale è stata l’anoressia. Io non potevo più pensare indipendentemente da quello che mi aveva attraversato. E a partire da lì ho capito che la filosofia dà strumenti diversi, spirito critico. Non serve a incastonare il reale all’interno di un sistema, ma dà la possibilità di prendere distanza rispetto a un certo quadro, a una certa fotografia della realtà. E poi al tempo stesso, la filosofia dà strumenti per entrare in contatto con se stessi. Da questo punto di vista, per me non c’è una grande distanza tra la filosofia e la psicoanalisi, anche se io ho riscoperto la filosofia passando attraverso la psicanalisi. Quello che è importante è tutto ciò che ci permette di riconoscerci. Prima dicevo che è importante essere riconosciuti per quello che siamo, dai nostri genitori, dai nostri insegnanti. Poi c’è il passaggio ulteriore: dopo essere stati riconosciuti, o se non si è stati riconosciuti, dobbiamo riconoscerci. L’importanza della filosofia è proprio questa: darci gli strumenti che ci permettano, anche se non siamo stati riconosciuti, di imparare a riconoscerci. Quindi strumenti critici, ma anche strumenti empatici. La filosofia non è solo uno strumento razionale. È anche ciò che ci permette di inquadrare, di capire e quindi di vivere meglio la condizione umana con le sue fratture, con i suoi limiti e con tutte quelle differenze che proprio la filosofia ci può insegnare a pensare, a esplicitare, a spiegare a noi stessi e agli altri.
C’è un passaggio del tuo libro, “Volevo essere una farfalla”, in cui scrivi che “se non si impara a pensare con l’altro, niente ha più senso”. Per dirla con Nancy, questo con sembra indicare il luogo di una differenza tra me e l’altro, di un’alterità irriducibile. Ma se questo con, questa differenza, quest’alterità sono ciò che ci permettono di fare senso, come è possibile recuperarne il valore, in una società che tende all’omologazione?
Un tempo per me pensare era pensare l’altro come oggetto. Io stessa diventavo oggetto del mio pensiero. Progressivamente ho capito che l’unico modo di pensare non è pensare l’altro, ma pensare con l’altro. Uno dei problemi della società contemporanea è quello di credere che l’altro sia sempre a distanza rispetto a noi. E questo significa che poi l’altro non solo viene oggettivato, ma anche che viene demonizzato perché rappresenta tutto ciò che deve essere evitato. Mentre in realtà l’alterità abita prima di tutto in noi. Una delle cose più belle che ci spiega Freud è che uno dei motivi per cui l’alterità ci fa paura è che rinvia a quel qualcosa di estraneo che ci portiamo dentro, all’inquietante che abbiamo difficoltà ad accettare. E perché abbiamo difficoltà ad accettarlo? Perché ci mette in discussione. Alterità e diversità prima ancora di essere esterne a noi sono interne. Quindi ciò che ci dovrebbe permettere di riconoscerci è esattamente quel processo che ci insegna a convivere con l’alterità che ci portiamo dentro. Noi non possiamo essere esattamente come gli altri vorrebbero che fossimo, soprattutto perché non possiamo essere esattamente come noi vorremmo essere. Noi siamo qualcosa che si distacca sempre rispetto a un certo ideale che possiamo costruirci. Però è proprio perché c’è qualcosa che si distacca da questo ideale, l’alterità, che noi possiamo dirci esseri umani. Ed è solo pensando con questa alterità, pensando con gli altri, che possiamo poi costruire un vivere insieme, una società che noi sia normativa, dove non ci sia una normalità che escluda le diversità, ma una società inclusiva di tutte le differenze, che permetta di accettare e di accogliere anche ciò che non ci piace di noi stessi o degli altri.
Potremmo dire che alla base di accettazione e accoglienza si collocano la fiducia in se stessi e la fiducia negli altri? Il tema della fiducia è peraltro centrale nei tuoi libri. Tuttavia si tratta di un termine talmente abusato e banalizzato da certe retoriche in voga oggi, che molto spesso sembra svuotarsi di ogni significato. Che cosa vuol dire per te avere fiducia?
Il problema della fiducia oggi è un problema centrale. Intanto perché siamo in una società che da un lato dà delle norme di perfezione, ma dall’altro lato ha un cancro legato a una sfiducia profonda e radicale. È proprio perché abbiamo un ideale di perfezione per cui dobbiamo essere autosufficienti, che poi non abbiamo fiducia negli altri. Questo perché la fiducia negli altri implica una forma di dipendenza. Che cos’è la fiducia? La fiducia è una scommessa. Un salto nel buio. Per poter dare la mia fiducia a qualcuno io devo poter scommettere nella possibilità che questo qualcuno onori la mia fiducia. Senza averne la certezza, perché naturalmente sono proprio coloro in cui noi abbiamo fiducia che ci possono tradire. Se noi non avessimo fiducia in una persona, questa persona potrebbe al limite deluderci, ma non ci potrebbe tradire. Tradimento e fiducia vanno di pari passo. Però noi abbiamo bisogno di questa scommessa, anche se è una scommessa che possiamo talvolta perdere, perché senza questa scommessa di fiducia noi non possiamo costruire niente. Non possiamo vivere da soli. Abbiamo bisogno di avere rapporti con gli altri, per costruire legami, per costruire relazioni e per lavorare insieme. Anche se, a partire dal momento in cui diamo la nostra fiducia, entriamo automaticamente in un rapporto di dipendenza e di vulnerabilità. Che cosa vuol dire dipendere dagli altri? Basta pensare alla relazione di amore. Se io amo un persona, io non posso non dipendere dai gesti di questa persona. Io non posso non dipendere dalle sue parole. Quando io torno a casa da mio marito, mi aspetto un certo riconoscimento da lui, perché dipendo in parte da come lui mi guarda, da come lui risponde alle mie domande, e così via. Però questa dipendenza non può e non deve essere totale. Perché se è vero che parte del mio benessere dipende anche da come la persona che io amo mi risponde e mi guarda, non può dipendere tutto da questa persona. A un certo punto, parlando dell’amore nel libro “Volevo essere una farfalla”, spiegavo che quello che avevo capito, dopo la mia psicanalisi e dopo il nuovo approccio alla filosofia, è che oggi so che se perdo l’amore della persona che amo perdo tutto, tranne me stessa. Perché accanto a questa fiducia-dipendenza che io regalo alla persona che amo o ai miei amici c’è anche una base che si può chiamare fiducia in me, che mi permetterebbe di sopravvivere di fronte al tradimento. Che cos’è questa base? Non è quell’idea che consiste nel credere che io non ho bisogno di niente e di nessuno. È semplicemente la consapevolezza che il mio valore in quanto essere umano, in quanto persona, non dipende dallo sguardo altrui, non dipende da quelle famose parole che io aspetto quando torno a casa da mio marito. Io perdo qualcosa di importante se vengo tradita. Ma non la coscienza del mio valore, della mia dignità. La dignità è il valore intrinseco di ognuno di noi. E che cos’è la fiducia in sé? È la coscienza di questa dignità.
Parlare della dignità della persona mi fa venire in mente il tema della riuscita personale. Ognuno di noi è chiamato a riuscire nella propria vita, a realizzarsi come persona. Molto spesso però, pare ci sia una certa confusione su quanto la nostra società ci inciti a realizzarci realmente come persone o se piuttosto l’invito non sia quello a realizzarsi come personaggi, conformati a un modello imposto. Secondo te, che cosa si intende per riuscita personale, o meglio, come andrebbe intesa?
Oggi si sente molto parlare di riuscita personale, come se il valore della persona dipendesse unicamente da come questa persona “riesce”, cioè se ha successo o no. Mentre invece riuscire nella propria vita ha un altro significato. Il problema sta appunto nella confusione tra persona e personaggio. Molto spesso mi dicono che io nella mia vita sono riuscita a fare tante cose, nonostante la mia storia di sofferenza. E che forse grazie a quella sofferenza oggi ho raggiunto la posizione che occupo. Io ho la tendenza a rispondere che se fosse stato possibile tornare indietro e ricominciare tutto da zero, evitando tutto quel dolore, l’avrei fatto. Il problema è che io non posso tornare indietro e fare come se niente fosse successo. Io non potevo far altro che cercare di trasformare in qualcos’altro la mia sofferenza. E non credo che tutta questa storia possa spiegare il ruolo che io ora occupo. Certo io sono professore ordinario di filosofia all’università di Parigi. In questo momento sono anche deputato della Repubblica Italiana. Detto ciò, questo tipo di riuscita conta relativamente. Quello che conta è che io sono riuscita a uscire da quella mia sofferenza e a fare un passo accanto ad essa. E ciò è stato possibile non perché sono diventata ordinario, non perché mi sono ripulita della mia esperienza di dolore, ma perché ho imparato ad accettarmi nella mia propria fragilità. Perché ho imparato che la mia vita ha un valore indipendentemente da tutto. In fondo, quello che io oggi so non è di aver realizzato determinate cose, ma che è bello vivere nonostante tutto, nonostante le mie fratture che non vengono cancellate, nonostante i miei limiti. Nonostante le difficoltà.
A proposito della tua esperienza di sofferenza, ti chiedo una riflessione, a posteriori, su quando ti è stata diagnosticata l’anoressia. I Disturbi del comportamento alimentare, come molti altri disagi, pongono medici e psicoterapeuti di fronte alla sfida dello scarto che si crea tra i quadri sintomatologici, più o meno rigidi, dei manuali diagnostici e le forme sempre più mutevoli, ibride e variegate, manifestate da ciascuna singola persona che da quella sofferenza è chiamata in causa. Emergono nuovi disturbi, sempre più difficili da inquadrare e la categoria dei “Disturbi non altrimenti specificati” si allarga continuamente. Alla luce di tutto ciò, non pensi che sia il momento di ripensare il paradigma?
Sicuramente c’è bisogno di avere degli strumenti che permettano di fare una diagnosi. Detto ciò, bisogna anche stare attenti perché spesso la diagnosi può diventare un modo per chiudere una persona all’interno del proprio sintomo. Questa è una cosa per me molto importante. L’anoressia è un sintomo, ma quello che importa è che indipendentemente da come il sintomo si manifesta bisogna comprendere quello che c’è dietro. E quello che c’è dietro il sintomo è necessariamente soggettivo. La storia che io ho avuto, anche se ci sono tratti comuni con quello che hanno vissuto tante altre persone che hanno avuto gli stessi sintomi, è comunque diversa o può essere magari più simile quella che hanno vissuto altre persone, manifestando sintomi diversi. Quello che conta e che fa soffrire, al di là del sintomo, è il dolore profondo che c’è dietro. Un riconoscimento della persona che ha questo tipo di problemi non può che essere particolare e specifico. Quando io la prima volta sono stata diagnosticata come anoressica, per tantissimo tempo ho cercato di capire cosa volesse dire. Oltre ad essere stata quasi schiaffeggiata da questa parola. Anche perché, dal mio punto di vista non corrispondevo. Per me le anoressiche non avrebbero dovuto aver fame, mentre io ero tormentata dalla fame. Per me le anoressiche erano perfette, mentre io ero lontanissima dalla perfezione. In realtà il sintomo era esattamente quello, ma io non ero stata riconosciuta per l’ennesima volta per quella che ero. C’è qualcosa di comune. C’è un grido silenzioso: utilizziamo il corpo per dire qualcosa. Ma il qualcosa che si dice è sempre soggettivo. E fino a che non si uscirà da questa gabbia, che vuol necessariamente mettere tutte le anoressiche e tutte le bulimiche all’interno di uno schema preciso, probabilmente non avremo nemmeno gli strumenti necessari e efficaci per insegnare a chi non è stato riconosciuto come si fa a riconoscersi e ad accettarsi per come si è. Può sembrare semplice in realtà è difficilissimo, ma il problema è quello. Cos’è che urliamo attraverso i nostri sintomi? Io sono altro. Altro rispetto a quello che tu pensi, altro rispetto a quello che tu vorresti, altro rispetto a quello che si vorrebbe. Noi siamo altro. E nonostante tutto noi valiamo.
C’è un messaggio che vorresti lasciare ai partecipanti di “Pe(n)sa differente” o a chi ne segue le attività?
Prendete alla lettera l’espressione pensa differente. In fondo, il problema più grosso con il quale ci confrontiamo tutti è proprio quello della difficoltà di poter pensare in maniera diversa rispetto a come si pensa. C’è una tendenza all’omologazione. A pensare che ci si debba tutti comportare nello stesso modo e a pensare tutti la stessa cosa. Pensare in maniera diversa è difficile e ci vuole tantissimo coraggio. È estremamente difficile accettarsi nelle proprie differenze, rispetto a quello che si dovrebbe essere. Rispetto a quello che si dovrebbe fare per accettarsi con i propri limiti. Per cui, forse l’ultimo messaggio che mi piacerebbe inviare, e che continuo a inviare anche a me stessa, è accettatevi per come siete. Perché è l’unico modo per vivere in maniera umana, che consiste nel riconoscersi per come si è, con le proprie fratture e con le proprie fragilità. Mi piacerebbe anche che tutti coloro che sono genitori si rendessero conto che ciò di cui i bambini hanno veramente bisogno è quello di essere riconosciuti. I bambini non hanno bisogno di giocattoli, di studio o di tante altre cose. I bambini hanno soprattutto bisogno che il papà e la mamma siano coscienti del fatto che valgono e sono importanti per come sono e non per quello che potrebbero essere o dovrebbero fare.
Foto di Paolo Pisanelli