26lug2013

Chi ha paura di Arlecchino?... Intervista a Claudia Contin

Chi ha paura di Arlecchino?... Intervista a Claudia Contin

«La mente vuota è sempre in cerca di sollievo ed è pronta a precipitare nell’errore per sfuggire al languore dell’ozio. Dotatela di idee, insegnatele a conoscere il piacere di pensare…» Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho


Qual è il posto dell’attore nella nostra società? Da questa domanda ha preso le mosse la riflessione che ha animato l’incontro con Claudia Contin e Ferruccio Merisi, fondatori della Scuola Sperimentale dell’Attore di Pordenone (http://www.arlecchinoerrante.com/). L’interrogativo non poteva certo essere esaurito in tutta la sua portata. Secondo le parole di Ferruccio Merisi, drammaturgo e regista, l’attore è colui che ha la capacità di "farsi cavalcare dal personaggio, portando sulla scena la verità di un altro destino e permettendogli di mantenere un senso aperto, per chi lo vuole contemplare o meditare". Ciò implica un profondo lavoro su di sé, che chiama in causa una grande responsabilità e che non esula mai dal confronto con l’alterità, con l’umano.
Quello che qui segue è un estratto dell’intervista in cui le parole di Claudia Contin, l’attrice conosciuta in tutto il mondo come Arlecchino, ci mettono in contatto con quella dimensione dell’arte che emerge da un’esigenza profonda, urgente, che si scontra con le logiche dell’apparire oggi dominanti e che ci tocca tutti da vicino. Un invito a riflettere su quella complessità umana che il teatro ha il potere e il dovere di incarnare. E infine, una sbirciatina al mondo della Commedia dell’Arte, che con la sua danza di personaggi grotteschi, rivela la grande potenzialità di un ritorno, oggi più che mai necessario. Perché se si pensa che il teatro, o l’arte in generale, sia un semplice diversivo, un mezzo per rendersi interessanti o una scusa per creare nicchie animate da blaterare erudito e autoreferenziale, si ha una concezione assai limitata e triste dell’essere umano.


Viviamo in una società in cui l’imperativo alla prestazione, alla performatività, alla spettacolarizzazione, ha ormai dissolto i confini tra il pubblico e il privato, conducendo all’obbligo sociale di promuovere al meglio la propria immagine. Tutto sembra spesso ridursi a pura esibizione e alla “vetrinizzazione” delle esistenze. Nulla di tutto ciò che non può essere immediatamente integrato nella dialettica produzione-consumo pare avere un valore o un’utilità di per sé e spesso ci si ritrova ad essere agiti da condizionamenti che ci impongono di essere sempre più efficienti e produttivi. Mentre il nostro vivere appare sempre più organizzato e pianificato, le nostre esistenze rimangono vuote. E nei momenti in cui si è liberi dalle attività lavorative, ci sentiamo ancora più vuoti, perché sottomessi alla vacuità di un tempo morto, come direbbe María Zambrano. A pensarci bene, proprio dove le logiche del consumo e della produttività si riducono ad essere i soli valori dominanti, troviamo una gran quantità di diversivi, di mezzi di intrattenimento e di distrazione, volti a nascondere e a sopire quell’insofferenza esistenziale, quel senso di inadeguatezza, cui spesso la nostra società ci conduce. All’interno di questo panorama, qual è per te il posto che il Teatro dovrebbe avere e come vivi la figura dell’attore?


Oggi ci scontriamo con una società che tenta di eludere quelle ritualità collettive, catartiche e perfino terapeutiche, che il teatro ha sempre avuto. Un tempo il teatro era considerato come qualcosa di veramente necessario, anche quando era divertimento delle corti. Non è mai stato ridotto a un puro strumento diversivo o a semplice divertimento, come oggi tende a voler essere considerato. Il giullare stesso, per esempio, non serviva a distrarre il signore, ma a metterlo in crisi, a sbattergli in faccia una caricatura di se stesso e della realtà, quasi fosse un consigliere all’opposizione. Oggi queste funzioni servirebbero forse ancora di più che in altre epoche, ma sono soffocate dalle domande indotte dal consumismo e dalle politiche commerciali. L’imperativo è uno: vendere chiacchiere, vendere divertimento, vendere un rilassamento diversivo che anestetizzi il pensiero. Il teatro pare debba essere un massaggio palliativo. Per di più, questa nuova ottica riduttiva del teatro ne sposa un’altra che nasce dall’individualismo, per cui lo scopo dell’attore parrebbe essere quello di diventare famoso al più presto possibile. E per fare ciò è egli stesso che deve essere personaggio, poco importa che si impegni ad interpretarne altri. Ora, queste sono funzioni indotte commercialmente, non sono vere necessità. Se metti in scena solo te stesso, come nei reality o in certi tipi di spettacolo, se il tuo narcisismo viene nutrito dal peggio di te, dal gossip, dalle logiche dell’apparire, non servi a nessuno. Sei immediatamente sostituibile e alimenti solo una performatività vuota. Se invece lavori su te stesso, attraverso i grandi personaggi, ponendo interrogativi profondi, alzi il tiro. Ti rendi veicolo con la tua persona, col tuo lavoro, di qualcosa che nutre l’umanità. È ovvio che per fare questo devi impegnarti duramente, devi acquisire col tempo una grande competenza di te e dell’arte teatrale. Per mostrare il peggio di te, basta che tu ti sappia vendere. Se cavalchi la decadenza, o meglio se ti lasci cavalcare dalle sue retoriche, non sei utile, sei omologato. Al contrario se apri le porte alla molteplicità, all’umano, facendo tuo quel patrimonio di vastissime competenze proprie del teatro, hai la possibilità di traghettare il meglio del passato verso il futuro e di rendere fecondo il presente, nonostante la decadenza. Questa è la funzione dell’attore consapevole: salvaguardare e alimentare una cultura che è vita e umanità. Recuperare e preservare una possibilità di respiro in quest’enorme fumo in cui viviamo oggi.  Mantenere un’indipendenza mentale critica positiva, contrastando quella perdita di competenza mentale che riduce la vita e che si paga in depressioni, nervosismi, insoddisfazioni, per cui nulla di ciò che si ha è mai abbastanza.


In un’intervista di qualche anno fa evidenziavi l’importanza dello stimolare alla creatività. Hai parlato di contagio. Un artista non è tale se non è in grado di contagiare l’altro con la propria creatività, rendendolo partecipe di quella spinta creativa che ha mosso il proprio lavoro. Si potrebbe dire che questo sia da considerarsi un criterio di definizione dell’essere artista?


Se non ti poni il problema di stimolare la creatività dell’altro, di renderlo partecipe di quella che diventa, o potrebbe diventare per lui, una nuova forma di conoscenza, forse dovresti chiederti cosa c’è dietro al tuo lavoro. Se ad esempio tu sei un pittore e ritieni che i tuoi quadri siano il massimo, ma dietro il tuo dipingere c’è la semplice necessità di celebrare la tua facciata, il tuo ego, come se questa fosse la più alta aspirazione da raggiungere, non fai succedere niente, non comunichi nulla se non un “guardate quanto sono bravo!”. Chi guarda il quadro invece deve essere stimolato. Per questo è importante il contagio. Non è detto che riesca sempre, però bisogna provarci. Riuscire a far pensare, a creare un bisogno di ricerca. Se non c’è quest’empatia, il tuo lavoro non ha effetto e non dura. Tu sei lì per aprire la porta a delle energie mosse da una necessità profonda e devi riuscire a sintonizzare il pubblico su questa necessità.


Questa sintonizzazione empatica, questo contagio, è ciò mi permette di riconoscere l’artista? Oggi come oggi, di cosiddetti artisti ce ne sono veramente tanti…


Si dice che ognuno di noi dentro di sé è un po’ artista. Tutti si possono dilettare di un qualcosa e questo diletto oggi è portato all’eccesso. Tutti sono fotografi, performer, poeti, ecc., ma che cosa distingue il sedicente artista dall’artista vero e proprio? Perché una poesia di Ungaretti mi contagia, mi colma, mentre quella dell’ennesimo scrittore emergente può non avere lo stesso effetto? Non è perché Ungaretti sia più famoso, ma è perché ha dedicato la sua vita a quello, al contagio. Perché il vero artista esprime qualcosa che sente come urgente al di là di se stesso. Se tu fai qualcosa per esprimerti al di là di te stesso, hai il bisogno di contagiare e controlli che il messaggio che vuoi mandare vada a destinazione. Non lo spargi a casaccio su Facebook, non lo vendi al miglior offerente purché sia, ma ti rendi responsabile di verificare che arrivi. L’artista non è chi ha qualcosa da esprimere, ma è chi si rende responsabile di garantire che quello che esprime arrivi senza subordinarlo a niente e a nessuno e che non può fare a meno di contagiare.


Questo rendersi responsabili di garantire che il messaggio arrivi, di non venderlo a casaccio, oggi non è affatto scontato. Tuttavia esaurisce il discorso? Il fatto di non essere subordinata a niente e a nessuno rende l’arte, il teatro in questo caso, un’attività libera. Tuttavia ciò viene spesso confuso con l’assenza di qualsiasi criterio di valutazione, per cui se l’arte è libera espressione, allora vale tutto, purché si abbiano i mezzi per realizzarlo e per garantirsi la giusta platea…


È vero e si fa molta confusione. Però alla fine perché alcuni sì e altri no? Non vale più l’idea “io sono più bravo” o “io ho tanti mezzi”. Il sì arriva a fronte di tanti no, che ti sono arrivati e su cui tu hai lavorato. La scoperta del talento non è niente se tu non lo coltivi. Tutti hanno diritto di fare gli attori, ma se poi tu vuoi veramente farlo hai il dovere di esserlo. Mi spiego. Non è che tu hai il diritto di essere attore se lo vuoi. Se vuoi essere un attore, tu hai il dovere di essere un attore preparato, responsabile, rispettoso del tuo lavoro, altrimenti non puoi pretendere dagli altri quello che non sei in grado di scegliere per te stesso come valore. Quindi semmai hai il diritto di prenderti il dovere. E hai il dovere di lavorare su te stesso accettando e confrontandoti con i tuoi limiti, prendendoli in considerazione. Se pretendi che tutto quello che ti esce sia perfetto e abbia consenso immediato, non cresci e sei sostituibile. Se non ti confronti con nessun altro, se non ti apri all’imprevisto, all’altro, alla diversità, sei chiuso in te stesso e non vai avanti. Il teatro istituisce l’incontro con l’altro - altro come altro attore, altro come spettatore, altro come personaggio - e celebra la responsabilità e il profondo rispetto che da quest’incontro provengono.


Entrando nel merito della Commedia dell’Arte, ti chiedo una riflessione sul suo valore e sulla capacità di invitare ad una nuova forma di coscienza del proprio corpo, al di là dei canoni estetici e performativi che la società di oggi impone…


La prima cosa che emerge quando fai o insegni Commedia dell’Arte è la capacità proteiforme di trasformarti attraverso il tuo corpo da giovane in vecchio, da grasso in magro e viceversa. Il fatto di allenarti a piegare il tuo corpo in forme sempre diverse, quindi a non specializzarti, ti mantiene elastico ed empatico. Mantiene tutte le tue possibilità in funzione e recupera quelle che non sapevi di avere, anche in caso di handicap. Lavorando su posizioni esasperate disinibisci il tuo corpo e ne assumi una nuova consapevolezza, perché prima di tutto usi un archetipo. Non è il tuo pancione quello che esibisci quando fai Balanzone, ma senti al tempo stesso che quello è segno di un patrimonio collettivo che ha un valore, che ha una simpatia e che rinvia a qualcosa che porta la sua differenza proprio come valore. In questo modo perdi quelle timidezze e quelle insicurezze che tu hai sul tuo corpo. Tutto ciò si fonda sul concetto di grottesco, che è  proprio della Commedia dell’Arte. Noi oggi conosciamo o l’orrendo più truce o la bellezza senza difetti, ma il grottesco non ci è più familiare. Invece è una cosa su cui si basa l’istintiva reattività estetica delle persone. Ti faccio un esempio: nell’arte nobiliare dei grandi palazzi del ‘400 o del ‘500, trovi le scene di caccia in sala da pranzo, le scene delle vittorie belliche o quelle religiose nelle sale da ricevimento. Se entri invece nelle camere da letto o negli studioli privati trovi le cosiddette “grottesche”: donne con tre seni e corpo di serpente, cherubini con quattro ali e senza corpo, faccioni con espressioni esagerate che sembrano quasi deformi, ecc.. Le antropomorfizzazioni grottesche fiorivano nei luoghi dove la gente dormiva, dove si rilassava o rifletteva. Come se ci fosse bisogno nell’intimità di uscire dai canoni imposti per cui bisogna sempre essere in un certo modo e poter finalmente essere se stessi. Il senso del grottesco è proprio questo ed è quello che ci appaga di più. Quando la perfezione estetica comincia ad essere un dovere imposto, quando bisogna essere sempre impeccabili e questa mera necessità di apparire perfetti comincia ad entrare nella tua intimità, sono guai enormi. L’insicurezza di come sei fatto, le preoccupazioni per il tuo corpo, per quanti chili o rughe hai, incominciano a erodere tutta la tua esistenza. Invece, noi abbiamo bisogno di grottesco. La Commedia dell’Arte te lo dà e rende pubblicamente eroi coloro che fanno del difetto il loro carattere distintivo, coloro che non sono né bellissimi né mostri, ma sono semplicemente diversi: i grotteschi. Nella nostra società questo aspetto è stato tagliato via. Manca quella via di mezzo naturale in cui si trova il gusto di vivere per come si è. I difetti e le diversità fanno parte della vita e non devono essere nascosti. Siamo riusciti a rendere spaventoso qualcosa che fa parte di noi e di cui abbiamo veramente bisogno. Perché se perdi la capacità di accettare le tue imperfezioni e le tue differenze, pian pianino perderai anche la capacità di accettare una ruga, il naso un po’ storto, un chilo di troppo… fino al punto di non accettare più te stesso.

Andrea Sagni