Illustrazione di Paola Rollo
Quella che segue è una breve intervista alla nostra amica Sabrina Palumbo, che durante la scorsa edizione di “Pe(n)sa differente” ha portato la sua testimonianza di ex paziente in trattamento per anoressia. Di nazionalità francese, Sabrina è fondatrice dell’associazione SabrinaTCA92, consulente in comunicazioni e autrice del libro “L’âme en éveil, le corps en soursis”, presto disponibile anche in lingua italiana.
Che cosa ti ha portato a scrivere “L’âme en éveil, le corps en soursis”?
Ho scritto questo libro perché sapevo di avere delle cose da dire, da raccontare, sebbene non avessi alcuna pretesa di insegnare niente a nessuno. Anche se, quando si scrive un libro non si sa mai fino in fondo quali saranno le conseguenze che potrà produrre su di te o sugli altri. Ho avuto dei buoni riscontri e questo, a poco a poco, mi ha aiutato a prendere fiducia sul suo valore. Inoltre, ho visto delle persone aprirsi grazie al libro. Soprattutto molti familiari. In effetti, anche se ci sono molte persone che si riconoscono in certi aspetti di quello che racconto, credo che il libro aiuti ancora di più coloro che sono vicini a chi soffre, in quanto grazie alla testimonianza possono comprendere un po’ meglio quella sofferenza. Credo sia questo il valore della testimonianza: il fatto che possa aiutare a fare un passo avanti, anche piccolo, nella comprensione, senza pretendere di spiegare tutto. Oggi si parla sempre di più di disturbi del comportamento alimentare, ma c’è ancora tanta confusione, soprattutto quando si tende a ridurre tutto a delle etichette.
A proposito di etichette, secondo alcune teorie, più o meno dibattute, la persona diagnosticata modula la sua condotta in funzione della diagnosi. Che ne pensi?
In effetti, credo occorra fare molta attenzione quando si parla di diagnosi. Prendiamo per esempio le situazioni di cronicità. Quando si diagnostica un malato come cronico, se ció non si accompagna ad una presa in carico complessa e globale della sua persona, lo si rinchiude un po’ in questa etichetta. La persona inizia a ragionare dal punto di vista della malattia e non dal punto di vista delle risorse che porta in sé. Ci si dimentica che questo rende ancora più difficile la possibilità di guadagnare il più possibile salute. In questo senso, la diagnosi rinchiude un po’ nella malattia. Ma il problema non è la diagnosi in sé, ma il fatto di non riconoscere che si tratta di un punto di partenza da cui bisogna sapersi staccare, il che vale tanto per il medico quanto per il diagnosticato. Soprattutto se si considera che nei disturbi alimentari, come in tutte le patologie, c’è sempre un’evoluzione. É importante fare una buona diagnosi per avviare il trattamento più adatto, ma è anche importante sapere prendere della distanza rispetto ad essa, capire che non fa parte dell’essenza della persona. Questo è il problema con le etichette!
Al tempo stesso nel libro, parli spesso dei disturbi alimentari come di un tabu...
Si e puó sembrare contraddittorio, perché in effetti si ha l’impressione che se ne parli molto. Il punto é che spesso lo si fa tramite stereotipi e etichette. Quando ho fondato l’associazione con lo scopo di sensibilizzare al problema, ho avuto improvvisamente l’impressione di non servire. Poi peró mi sono resa conto che molti dei discorsi fatti si esauriscono spesso in se stessi, in una serie di nozioni stereotipate, miste a presunzione, pregiudizio e commiserazione... Sí, ancora oggi i disturbi alimentari sono un tabu, altrimenti non ci sarebbero persone che soffrono in preda a sentimenti di colpa e vergogna. O che hanno difficoltà ad aprirsi e a chiedere aiuto. A parlare apertamente della loro malattia... La tendenza di oggi è quella di parlare di tutto senza dire nulla in fondo. Parlare di tutto pur di non raccontare ció che fa veramente paura, la fragilità umana, la sofferenza profonda, la solitudine...
Ed è anche per fare luce su questo aspetto che hai scritto il libro?
Anche. Ma ci tengo a precisare che il mio libro non é un regolamento di conti con la società. Non é un libro di collera. Gettare la collera addosso a coloro che ti hanno fatto del male, a lungo termine, non serve a nulla, perché la sofferenza non si puo’ certo cancellare cosí. Anzi, occorre capire che i vissuti dolorosi non si possono eliminare, i ricordi restano, ma si impara a andare oltre, ad essere “ok” con tutto ció e a guardare al di là. Ho cercato di fare di questo libro un libro d’amore, un messaggio d’amore. Quando sono uscita dall’ospedale non ero più nulla. Avevo recuperato un corpo, ma mi sentivo vuota. Mi ci è voluto del tempo per accorgermi che ci sono delle persone pronte a tenderti la mano e questo é avvenuto poco a poco. Con il libro, l’importante per me era restituire un po’ d’amore. Anche se oggi mi rendo conto che l’amore forse non basta. Anche con l’amore, anche con le migliori intenzioni puo’ succedere di fare del male. Oggi cerco di concentrarmi piuttosto sulla pace, nel senso che mi rendo conto che quello che mi mancava in fondo era riconciliarmi con me stessa, venirmi incontro, conoscermi. E questo è un cammino a volte faticoso, ma ne vale la pena.
Che cosa diresti alle persone che soffrono di un disturbo alimentare?
Non restate soli con la vostra sofferenza, siamo fatti per stare insieme e nutrire delle relazioni. Bisogna restare nei legami, non isolarsi, anche se si ha paura. Essere in relazione vuol dire correre il rischio di restare feriti, è vero. Ma non è questo il peggio che possa capitare, la vera tortura è l’isolamento, restare da soli con la propria sofferenza, pensare che ci se ne debba vergognare. Anche se ci sono persone che non capiranno, non abbiate paura di sentirvi giudicati. Alla fine ci si rende conto di quanto un sorriso, una mano tesa, valgano di più di tanti pregiudizi e incomprensioni. E questo, per quanto piccolo, è un pensiero confortante. Occorre avere fiducia.