05giu2012

“Sii snella/o e stai allegra/o”

“Sii snella/o e stai allegra/o”

Influenze mediatiche e modelli culturali.
Come molti di voi sapranno, il 14, 15 e 16 giugno si terrà a Lecce l’evento “Pe(n)sa differente – 2012”, Manifestazione nazionale di sensibilizzazione, informazione e formazione su anoressia, bulimia e obesità. All’interno del convegno e dei vari incontri culturali verranno toccati molteplici temi che riguardano il rapporto con la corporeità e con l’alimentazione. Lungi dal restringersi alla sola fenomenologia dei Disturbi del comportamento alimentare, tali tematiche ci coinvolgono tutti (in misure diverse) e ci invitano a riflettere sulla situazione che attualmente la nostra società sta affrontando.
Uno degli aspetti che forse più immediatamente ci riguarda è quello relativo alle influenze mediatiche contemporanee e allo spazio che occupano nella nostra vita, proponendoci modelli culturali sempre più variegati. Di ciò alcuni esperti parleranno al convegno ed è da questo argomento che la nostra riflessione vuole partire, senza naturalmente pretendere di .esaurirne la portata.


Spaesamento esistenziale.
Se nell’epoca moderna i processi di costruzione identitaria si declinavano nei registri più o meno accettati della linearità e dell’ereditarietà, l’epoca contemporanea ha rilanciato l’idea di un’identità composita, multicentrica e basata sulla scelta soggettiva . Nel perpetuo bombardamento di immagini, informazioni e modelli da seguire, i criteri di riferimento sono diventati quanto mai instabili. Nel frattempo, rottura dei confini, “libertà” di scelta e autoaffermazione devono andare di pari passo con la dimostrazione di aver assimilato aspettative subdolamente imposte e standard di efficienza sempre più elevati. Inoltre, l’aumento delle possibilità di scegliere è direttamente proporzionale alla quantità di responsabilità che ogni scelta richiede nei confronti di se stessi, in una dimensione al tempo stesso segnata da condizioni di precarietà che sfuggono al controllo. Il paradosso è che se da un lato il futuro si offre come «incertezza, insicurezza, inquietudine» , dall’altro il tempo viene vampirizzato, fagocitando ogni evento prima ancora che accada nell’ottica del fruibile e del performativo. In più, la società del vagabondaggio esistenziale impone l’insensata pretesa di non essere mai turbati , con il conseguente ricorso a soluzioni pronte all’uso per far fronte a qualsiasi tipo di domanda, nonché a scelte acritiche di forme di identificazione, basate su modelli rassicuranti al momento, ma che possono condurre a condotte patologiche. Non a caso i Disturbi del Comportamento Alimentare (senza voler confondere aspetti patoplastici e fattori patogenetici) si prestano bene a rappresentare molti dei grandi temi, paure e contraddizioni della nostra epoca, più che mai connessa alla bellezza, alla magrezza, all’alimentazione come criteri primari di valutazione dell’universo persona.
Ora, che rapporto c’è tra modelli di vita socialmente riconosciuti e acriticamente accettati  e le strade che conducono alla vera a propria malattia?


Stili di vita in vendita e diet-etica.
All’interno di un panorama abitato da identità nomadi, le influenze mediatiche esercitano una potentissima dittatura, disperdendo le coscienze in un esasperante circuito che rilancia modelli cui ispirarsi sempre nuovi. L’identità stessa dell’individuo viene allora tutta integrata all’interno della dialettica produzione-consumo che induce riorientamenti e continue trasformazioni tra l’essere, l’apparire e l’avere. 
Da qualche anno, in risposta ai vuoti di senso e allo spaesamento che il consumismo ha indotto, il mercato stesso ha adottato la retorica dell’autodeterminazione e della cura di sé, riconfigurando il prodotto da oggetto di consumo a “stile di vita” usa e getta. Rottamando le idee di benessere e di qualità della vita, le abitudini del mondo rurale e i pensieri filosofici (quelli orientali di solito vanno per la maggiore), il mercato oggi ci propone tutta una serie di strategie volte ad eludere le nostre domande di senso. Gli imperativi sono sempre gli stessi: essere belli, essere efficaci, essere felici (senza porsi troppi interrogativi). La bellezza esteriore, standardizzata, diventa anch’essa prodotto che rinvia a qualcosa che va oltre i canoni estetici, alludendo all’essenza stessa della persona. Non occorre fare un’analisi sociologica troppo accurata per rendersi conto di come milioni di persone individuino nel rapporto con il corpo e con il cibo il mezzo più immediato e ovvio per esprimere se stessi. Il proliferare nei media dei discorsi sulle diete, sul fitness e sulle cosiddette filosofie alimentari ne sono una testimonianza. A ben guardare tuttavia, la paradossalità di tale situazione è disarmante: da una parte siamo indotti a trarre il massimo godimento dalle nostre esperienze, dall’altra è essenziale evitare qualsivoglia ripercussione negativa di tali godimenti sul nostro corpo. La legittimità del concedersi un lauto pasto è data a patto che il giorno dopo il tutto venga bruciato in palestra (e l’associazione di ciò alle pratiche di compensazione tipiche dei disturbi alimentari viene spontanea). Nonostante tutto questo, l’obesità dilaga. Il che ci porta nuovamente di fronte al paradosso di una società che non ammette vuoti che non possano essere colmati. Si oscilla tra un mercato che propone ogni genere di piacere da un lato e una severa dittatura del corpo dall’altro. La spasmodica ricerca di emozioni ed esperienze estreme vige al tempo stesso con il bisogno di stabilità e di certezze. La felicità è pretesa e va esibita. Se è raro che la vita si armonizzi con quello che si ha in mente, tanto vale piegare la mente perché si armonizzi con la vita. Limiti, insicurezze e paure non sono tollerate, perché bisogna sempre essere allegri, efficienti e avere ogni volta la risposta pronta. E in effetti la risposta pronta c’è: la si trova preconfezionata alla bancarella dei “modi di essere” tutti ben disposti e infiocchettati dalla potente dittatura delle emozioni e del sentire.
Inoltre, ciò che non deve essere trascurato è il fatto che si sta assistendo alla trasmissione di modelli culturali che esaltano la magrezza e propagandano comportamenti di controllo del peso che in alcuni casi arrivano ad essere patologici. Il caso più estremo e più inquietante e quello dei siti pro-Ana e pro-Mia, dove Ana e Mia stanno a significare rispettivamente anoressia e bulimia. Se si presta attenzione ai cosiddetti “dieci comandamenti di Ana”, si noterà come buona parte di questi sono espressione di credenze e atteggiamenti socialmente riconosciuti. Come ha affermato il filosofo della scienza Paolo Rossi, sorge una certa difficoltà nel separare i fattori patogenetici di una patologia dall’impianto culturale che le dà nutrimento . Inoltre, associare tali imperativi ai dieci comandamenti della tradizione giudaico-cristiana non è casuale, pare infatti che ai giorni nostri la dietetica abbia preso il posto dell’etica e della religione . Ciò che fa stare bene è mostrare di stare bene, attraverso il controllo del proprio corpo, seguendo il decalogo dietetico, la ricetta miracolistica o la formula del “modo di essere” che conduce alla felicità.
C'è dunque ancora spazio per la possibile verità del singolo messo di fronte a se stesso, al proprio corpo, alle proprie emozioni e, in ultima istanza, alla sua condizione di essere umano?


Il buon demone contro le nuove divinità.
L’ossessione della perfetta forma fisica corrisponde al disperato tentativo di difendersi da ciò che è inevitabile. Quello di cui si ha paura potrebbe essere in ultima analisi identificato nella parola alterità. L’altro è ciò che ci è sempre in una certa misura sconosciuto, come gli altri abitanti del mondo con cui siamo chiamati a confrontarci; come quelle parti di noi stessi che ci sorprendono ogni qualvolta ci fanno sperimentare emozioni che reputavamo a noi estranee; come il nostro stesso corpo che muta, invecchia e si ammala indipendentemente dalla nostra volontà e, alla fine, come l’esperienza ineluttabile della morte.
Rifiutare l’alterità vuol dire negare il principio di realtà e con esso l’umano. Vuol dire chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dal desiderio mimetico che tutto standardizza, offrendoci la sicurezza dell’analgesia emotiva. Vuol dire venerare le divinità del culto del corpo che ci fanno sperimentare l’immediata, quanto illusoria, capacità di autodeterminazione e di controllo delle nostre azioni. Infine, rifiutare l’alterità può voler anche dire affidare a un sintomo la manifestazione del proprio dolore, di quella rabbia e di quelle ferite che il mondo non è stato in grado di accogliere.
In una battuta del telefilm “Streghe” una delle protagoniste dice che se esistesse una pozione protettiva la mischieremmo ogni mattina al nostro caffè. Il riferimento al mondo della magia può apparire insensato, ma non lo è. Si è alla continua ricerca di “formule magiche” che ci preservino da ogni possibile ferita. Ma, non esiste antidoto al male di vivere, né abracadabra né soluzioni precotte. Occorre educarsi a guardare la realtà e a farlo con i propri occhi. Occorre accettare di essere nel mondo come apertura, consapevoli che nessuno è immune dall’errore, dall’imprevedibilità, dalle lacerazioni e dalle ferite, che sono caratteristiche proprie dell’esistenza umana. Rifuggire il dato costitutivo dell’esistere non fa che renderci schiavi del dolore e dell’angoscia, per cui si arriva quasi a preferire l’apatia all’autentico sentire.
Ma in questo paesaggio di precarietà e sofferenza qual è il posto della felicità? La filosofia greca ci aiuta a riflettere offrendoci la parola eudaimonia e cioè l’essere in mano al proprio buon demone. Che cosa vuol dire? Vuol dire essere conformi alla propria essenza, affidandosi all’etica del sentire personale. La felicità, per dirla con la filosofa De Monticelli, è la condizione che fa essere pienamente se stessi: «il potere di risvegliare in noi una possibilità d’essere che è essenzialmente nostra, di attivare in noi un più profondo consenso all’essere e a ciò che siamo». Laddove il dissenso da noi stessi porta a quella condizione di infelicità che è un ritrarsi dalla realtà del mondo e dell’altro nel moto infelice che «ci riduce e ci uniforma ai livelli impersonali del sentire» . Ecco allora che il “conosci te stesso” diviene invito a farsi carico in modo autonomo dei processi di costruzione della propria identità e si declina come strumento di riconfigurazione di senso in quella rete di relazioni che intratteniamo con noi stessi, con gli altri e col mondo.
Riflettere sulle influenze mediatiche che la nostra cultura esercita su ognuno di noi è di importanza fondamentale. Infatti, se accettiamo acriticamente una società che ci insegna a rispondere, alle grandi domande che l’esistenza ci pone, con filastrocche che acquistiamo da qualcuno che le ha pensate per noi; in cui il concetto di “cura di sé” si riduce o al trattamento estetico del corpo o a una meditazione solipsistica all’ultima moda; in cui soggettività che rifuggono ogni dubbio decadono nel vuoto di fronte alla prima esperienza di dolore; accettiamo anche che tra tutto questo e l’affidare il senso della propria esistenza all’unità simbiotica con un disturbo, il passo da compiere è più breve di quel che si creda.


Riferimenti:
Marzano M., Sii bella e stai zitta, Milano: Mondadori 2010.
Stagi L., Anticorpi. Dieta, fitness e altre prigioni, Milano: Franco Angeli 2008;.
Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano: Feltrinelli 2008
Demetrio D., Autoanalisi per non pazienti, Milano: Raffaello Cortina Editore 2003.
Rossi P., Mangiare. Bisogno, desiderio, ossessione, Bologna: Il Mulino 2011.
Rigotti F., Gola. La passione dell’ingordigia, Bologna: Il Mulino 2008.
De Monticelli R., L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano: Garzanti 2003.

Andrea Sagni