Un po’ di corpo a corpo.
Cos’è per me il mio proprio corpo? Riflettere sulla nostra condizione di esseri carnali e su che cosa significhi per ognuno di noi abitare il mondo che abitiamo, nel corpo che abbiamo e che siamo, è un’impresa difficilissima. Se iniziassimo il nostro percorso di riflessione, ponendoci nell’atteggiamento di chi voglia arrivare una volta per tutte a risposte definitive, avremmo già mancato il nostro tema prima ancora di incominciare a pensarlo. Se, ancora, volessimo intraprendere tale cammino credendo di poterlo fare al di sopra del campo di battaglia, non sentendoci cioè intimamente toccati, turbati e messi noi stessi in discussione di fronte a ciò che via via veniamo costruendo nella riflessione, ci ritroveremmo a partorire un feticcio, un’escrezione del pensiero che non servirebbe a nessuno e che, tutt’al più, potremmo usare da concime nel vasto campo dei pensieri blaterati a circuito chiuso, che alla fine rinviano sempre a essi stessi.
Si tratta allora di accogliere la sfida dove la riflessione prende le mosse dalla vita, nella sua concretezza, e alla vita ritorna. Occorre allora riportare il pensiero a ciò con cui interagiamo da sempre, il nostro corpo, come ciò che rende possibile il nostro vivere e il nostro essere al mondo, ma che sfugge al nostro desiderio di controllarlo totalmente e ci invita ad un rapporto ravvicinato con esso, laddove al tempo stesso ne sperimentiamo la lontananza. Si tratta in definitiva, di accettare la possibilità di imbattersi in un enigma, la cui enigmaticità però non dovrebbe sottrarci alla responsabilità, a volte dolorosa a volte meravigliosa, di viverlo consapevolmente.
Ora, che il tema sia complesso da affrontare, si è capito. Come fare allora per agevolare e stimolare la riflessione? La risposta che mi viene in mente suona quasi come una battuta paradossale e sarebbe “complichiamola”! O meglio, proviamo a prendere in considerazione questa complessità, considerando l’uomo, il suo essere corporeo, nella maggiore ricchezza pensabile di possibilità. In effetti, pare che in ogni definizione di corporeità, come corporeità vissuta, vi sia sempre qualcosa che rinvia ad un’inesauribile ulteriorità. Vorrei qui mettere da parte le pretese illusorie di esaustività e chiedere aiuto ad alcuni filosofi che hanno trattato il tema del corpo. Mi auguro così che calandoci, anche soltanto appena, in quella che potremmo definire una riflessione ininterrotta, possano nascere stimoli e fecondi spunti di riflessione che in qualche modo rimandino al concreto dell’esistenza di ognuno di noi.
L’invito, che spero sarà accolto, è allora quello di lanciarsi in una sorta di corpo a corpo con il pensiero filosofico, che quando è autentico filosofare e non mero filosofeggiare, emerge e sempre ritorna ad un corpo a corpo con la vita.
Maurice. La carne.
Cos’è per me il mio proprio corpo? In Fenomenologia della percezione, Maurice Merleau-Ponty considera il nostro corpo come il mezzo generale di «avere un mondo». La corporeità è individuata, nel senso che il mio proprio corpo mi individua – è il mio non il tuo - e attraverso esso mi inserisco in un mondo ed entro in rapporto con gli altri. Ora, per mezzo del corpo io percepisco le cose intorno a me, le ho presenti e mi ci relaziono. Apro gli occhi e vedo, allungo la mano e tocco, sento attraverso le orecchie ecc. Il mio corpo è allora «il mio punto di vista sul mondo» ed è nel mondo «come il cuore nell’organismo», cioè «mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema». Il corpo realizza pertanto l’attualità dell’esistenza, cioè rende possibili le intenzioni e i progetti di ogni essere umano. Corpo e mondo appaiono strettamente interconnessi in un unico tessuto, la carne del corpo ci consente di cogliere la carne del mondo. Ma c’è di più. In questa interconnessione, quando diamo un senso alle cose, nella loro immediatezza, ciò non avviene unicamente in base alla nostra coscienza, ma «sono le cose stesse a suggerirci quel senso, sulla base di una storia presente e passata del corpo». Perciò, ad esempio, mi può capitare di sorprendermi ad avere la pelle d’oca di fronte a qualcosa che apparentemente non giustifica quella mia reazione.
Ora, questo «mezzo generale di avere un mondo» ci rivela il suo carattere di ambiguità allorché «in quanto porta organi di senso, l’esistenza corporea non riposa mai in se stessa, è sempre travagliata da un nulla attivo, mi fa continuamente la proposta di vivere». Se il corpo appare in primo luogo come ciò che mi permette di esistere, inserito coscientemente nel mondo, pare che al tempo stesso la materia del corpo sia anche il luogo di un’operazione incessante, del movimento di uno scavo interminabile. Questo corpo travagliato e scavato sfugge all’istanza di proprietà, poiché in esso opera qualcosa che sfida la nostra consapevolezza. È qualcosa che si avvicina all’inconscio di Freud. È qualcosa che Merleau-Ponty chiama «carne», corpo desiderante per cui non siamo mai del tutto padroni in casa nostra. Questa carne si intromette nella nostra vita e ci impone delle necessità che segnalano sempre una mancanza. L’uomo, in quanto persona incarnata è chiamato a reggere questa potenza che aspira sempre a una soddisfazione che essa stessa non sa indicare. Merleau-Ponty non tematizza ulteriormente questo aspetto, ma che si voglia leggere tra le righe oppure no, ci consegna un momento di forte ambiguità. Possiamo allora riflettere sul fatto che anche quando penso di avere tutto sotto controllo, anche quando vivo nell’illusione di poter sottrarre il mio esistere alla mia stessa corporeità, soffocandola nella soddisfazione cieca di qualsiasi tipo di bisogno, disincarnandola nella restrizione o virtualizzandola attraverso la tecnica, un’eccedenza di «carne» rimane sempre a ricordarmi la natura ambigua del mio esistere.
Martin. L’apertura.
Che cos’è per me il mio proprio corpo? In Martin Heidegger, il discorso sul corpo è agganciato a quello dell'esistenza e alla dimensione temporale, tematizzata in Essere e tempo. L'essere-corpo appartiene sempre all'essere-nel-mondo. Io sono corpo e sono nel mondo, sono nel mondo e sono corpo. Dal momento in cui sono stato partorito, il mondo non mi ha inglobato, determinandomi una volta per tutte, ma vi sono stato gettato. Questo essere gettato implica la dimensione della possibilità, che possiamo intendere come apertura verso ciò che non è ancora. Questa dimensione di possibilità rimanda tuttavia anche alla possibilità del non essere e cioè all’esperienza ineluttabile della morte, che ci apre alla situazione emotiva dell’angoscia. Qui l’angoscia è angoscia di fronte al nulla. Non si tratta dunque di paura, poiché la paura è sempre riferita a qualcosa di determinato, laddove invece l’angoscia sorge solo davanti al nulla. Questa angoscia è costitutiva dell’essere umano, in quanto essere finito. Tuttavia possiamo decidere di tentare la fuga da questa angoscia creandoci oggetti d’ansia o nascondendo la possibilità della morte, in un’esistenza inautentica. Posso quindi decidere di lasciarmi vivere e agire dai condizionamenti esterni, sottraendomi alla responsabilità della mia propria esistenza. Qui però si perde la dimensione dell’esistere come apertura, che come vediamo è data proprio dalla presa di consapevolezza della propria finitudine. Sono invece apertura, quando, gettato nel mondo, io progetto autenticamente le mie possibilità esistenziali, consapevole che parto da un’ineluttabile condizione di precarietà.
Ora, dove sia in tutto questo il posto del corpo lo si può già intuire. Poiché per Heidegger l’essere-corpo condetermina sempre all’essere-nel-mondo (gettato nella dimensione aperta di possibilità), l’essere-come-apertura rimanda all’essere-corpo nella modalità di essere-il-proprio-corpo. Io sono il mio proprio corpo, solo vivendo nell’orizzonte aperto di possibilità. In una vita in cui mi illudo di poter occultare la possibilità del dolore e la mia condizione di precarietà, sperimento il mio rapporto con il mondo come chiusura, pur di difendermi dall’imprevedibilità e dal rischio dell’esistenza. Allo stesso modo faccio del mio corpo un mero contenitore, riducendolo al solo aspetto dell’esteriorità. Illudendomi di poter controllare l’angoscia, sono controllato dalla paura, chiamandomi fuori dalla responsabilità della mia esistenza. Al contrario, l’accettazione della propria finitezza, della precarietà, della dimensione ineludibile d’angoscia corrisponde a vivere il proprio corpo nel pieno delle sue possibilità esistenziali, come apertura che ci consente un’autentica modalità di esistenza in quel mondo nel quale siamo chiamati a progettarci.
«Non è quindi, frutto di una scelta il rapportarsi al mondo, non è un capriccio passibile di essere revocato in qualsiasi momento. La modalità dell’uomo di relazionarsi a esso è una condizione fondamentale, esserne consapevoli significa aggiungere un senso nuovo alla propria esistenza».
Helmut. La frattura.
Che cos’è per me il mio proprio corpo? Pensare il corpo diventa il prototipo della riflessione. Nel corpo si incontrano infatti tutte le possibili contraddizioni. Ciò che ci è più familiare ci è anche inquietantemente ignoto. Ciò che più ci richiama alla vicinanza, al tempo stesso ci fa sperimentare una lontananza improvvisa.
Ne I gradi dell'organico e l'uomo Helmut Plessner ci accompagna attraverso un'analisi che fa dell'uomo frattura e centro di una continua mediazione tra il dentro e il fuori per la sua peculiare condizione di essere-corpo e essere nel corpo. Ciò fa sì che l'aspetto fisico e quello spirituale siano entrambi parimenti costitutivi dell'essenza originaria dell'uomo. Ora, in apparenza il corpo reale è il corpo organico. L'effetto della medicalizzazione e della biologizzazione dei discorsi sul corpo ha portato a considerare l'organicità come costitutiva della corporeità. Tuttavia, alla riflessione antropologico-filosofica, questo corpo organismo si rivela un mero montaggio d'organi che soltanto un sapere medico finito può assemblare. Al di sotto di questo vero corpo emerge qualcosa che sembra dare il suo vero significato alla vita organica. Questo qualcosa fa sì che l'uomo possa identificarsi con il suo corpo, intendendolo come il centro delle proprie sensazioni, emozioni ed azioni. Il corpo è pertanto ciò che ci definisce più direttamente. Tuttavia al centro di questa definizione si coglie l’indefinito. L'uomo ha un corpo ed è anche corpo. Tale necessità, per Plessner, porta l'uomo ad essere frattura ed egli «vive al di qua e al di là della frattura, come psiche e come corpo e come unità neutrale psicofisica di queste due sfere». La mia posizione rispetto al corpo è «eccentrica», dislocata nel doppio passaggio tra il dentro e il fuori, il vicino e il lontano: «il vivente è corpo, nel corpo (come vita interiore o psichica) e fuori dal corpo, come punto di vista dal quale esso è entrambi». Cerchiamo di capire meglio. Quando Plessner afferma che io sono corpo e contemporaneamente sono nel corpo, intende che la mia corporeità non rimanda solo al corpo attraverso il quale esprimo me stesso, ma anche al corpo quale apparato biologico. L’essenza del corpo, che ho e che sono, non include solo il corpo vissuto, ma anche tutto quell’insieme di processi fisiologici, genetici e neuronali grazie ai quali il mio comportamento si viene compiendo e formando. Tali processi agiscono spesso nella totale indifferenza della mia volontà. Devo dunque tenere presente che ciò che in qualche modo mi appartiene, il mio corpo, è al tempo stesso ciò di cui non sono completamente proprietario. Posso ad esempio muovere le dita delle mani, aprire e chiudere gli occhi, agendo da me stesso dall’interno, ma non posso agire allo stesso modo sul processo di invecchiamento delle mie cellule o sui meccanismi che regolano il mio intestino, per i quali al massimo posso intervenire su me stesso dall’esterno. Di questo stato di cose ce ne rendiamo ben conto nell’esperienza della malattia, dove cade l’illusione della totale indipendenza dal corpo, che mi si presenta nelle vesti paradossali di uno sconosciuto che irrompe nella mia vita, esigendo con me un rapporto sempre più intimo. Un’esperienza simile la si conosce anche da adolescenti, nei mutamenti repentini che coinvolgono il corpo. Ma pensiamo semplicemente a quando vediamo noi stessi o ascoltiamo la nostra voce in una registrazione: il più delle volte l’immagine delle nostre movenze e il suono della nostra voce ci disturba e ci risulta sconosciuto.
Abitato dalla frattura l'uomo si presenta estraneo a se stesso in una pluralità di forme. La posizione di mediazione tra interno ed esterno descritta da Plessner rivela allora una potenzialità cui si accompagna un compito. Anche di fronte a noi stessi, al nostro stesso corpo, a ciò che ci definisce più direttamente, dobbiamo metterci nell'atteggiamento dell'esploratore, facendo scoperte su di noi come se fossimo stranieri a noi stessi.
Leggere il corpo.
Che cos’è per me il mio proprio corpo? Riflettendo sul corpo abbiamo incontrato la carne, l’apertura, la frattura. Il corpo ci fa la proposta di vivere, animato da forze incassanti che sfuggono al nostro totale controllo. Il corpo ci invita a viverlo come apertura, rendendoci responsabili del senso della nostra esistenza come orizzonti infiniti di possibilità. Il corpo è anche la condizione per cui siamo al centro di una frattura, tra il dentro e il fuori, sempre in divenire.
Posta la domanda, abbiamo cercato di rifletterci sopra senza voler dare con questo una risposta. Che lo si intenda come carne, nella dimensione di apertura o come frattura, il corpo rimane un enigma. E in un certo senso va bene così, poiché di fronte a certi enigmi che riguardano l’uomo, il voler dare definizioni è sempre pericoloso. Il rischio che si corre è infatti quello di portare all’estremo l’oggettivazione, rendendo un mero oggetto ciò che oggetto non è, perdendo così il senso della domanda che era stata posta. I nostri filosofi non hanno di certo commesso questo errore. Questo non significa che la riflessione ci abbia portati al punto di partenza. Gli aspetti del corpo che qui sono emersi ce ne hanno rivelato la molteplicità di sfaccettature, il carico di possibilità, il carattere contraddittorio. Ciò ci dà la possibilità di considerare la ricchezza di queste riflessioni, dove il corpo diventa terreno fecondo e mutevole di analisi, per ricondurle a quegli aspetti che fanno capolino nella vita concreta ed esserne più consapevoli.
Sarebbe stato impossibile – almeno per il sottoscritto – riassumere qui la portata dei testi a cui mi sono riferito, senza rischiare di banalizzarli. Al tempo stesso, tanti temi che riguardano la corporeità non sono stati toccati e ciò è sicuramente un invito a farlo prossimamente. Quello che ho voluto fare è condividere alcune tracce di pensiero filosofico, sperando che ne possano nascere spunti di riflessione o approfondimenti. Ciò che colpisce, leggendo i testi a cui ho fatto riferimento – e non solo - è che è difficile non restarne in qualche modo coinvolti. Mentre leggiamo può accadere che qualche passo sembri riferirsi, anche solo per un attimo, ad un aspetto della nostra esistenza. In certi momenti può capitare di avere la sensazione che il nostro corpo legga con noi e ci inviti, insieme a quei testi, a pensare e a considerarlo un po’ più consapevolmente. Ciò avviene in maniera diversa in ognuno di noi, ma la peculiarità è che il discorso sul corpo ci coinvolge tutti. Al di là delle evidenti differenze che all'interno di queste opere possiamo riscontrare, l'invito che va colto è che è possibile servirsi della forza contenuta in ciascuna di esse, per assumere il corpo che ci è proprio nell’inesauribile ricchezza delle sue possibilità. Un dire di sì alla vita, quotidianamente, consapevoli di tutto ciò che essa comporta.
Bibliografia:
Fonti
Heidegger M., Essere e tempo (1927), Torino: UTET 1978;
Heidegger M., Seminari di Zollikon (1959-1969), Napoli: Guida 2000;
Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione (1945), Milano: Bompiani 2003;
Merleau-Ponty M., Il visibile e l’invisibile (1964), Milano: Bompiani 2007;
Plessner H., I gradi dell'organico e l'uomo (1928), Torino: Bollati Boringhieri 2001;
Studi
Costa V., Franzini E., Spinicci P., La fenomenologia, Torino: Einaudi 2002;
Marzano M., La filosofia del corpo, Genova: Il melangolo 2007;